Fantasia in busta
di Franco Filanci
Con il passare del tempo si dà tutto per scontato, dimenticando che ogni cosa ha avuto il suo inizio, che forse non era poi tanto scontato. Specie nel caso di grandi novità, quale fu a metà Ottocento il francobollo. Se l’idea, che ne fu all’origine, di una tariffa uniforme per tutta la nazione e basata solo sul peso era comprensibile a chiunque, quella di un rettangolino di carta equivalente a una certa tassa postale che rendeva franca la lettera sulla quale veniva applicato era molto meno semplice da comprendere e assimilare.
Istruzioni per l’uso
Soprattutto si puntò sull’informazione. Sul bordo dei fogli dei primi due francobolli del mondo figurava infatti l’istruzione di «piazzare le etichette (labels, i termini postage stamp e francobollo non erano ancora in uso [n.d.a.]) sopra l’indirizzo e verso il lato destro della lettera. Nel bagnare il retro fare attenzione a non rimuovere l’adesivo». Dieci anni dopo, quando i francobolli arrivarono anche nella penisola italiana, non era ancora ben chiaro dove esattamente andassero sistemati. In effetti nella regia notificazione imperiale del 31 maggio 1850 che introduceva nel Regno Lombardo-Veneto sia nuove tariffe sia i primi francobolli, al paragrafo 15 si legge: «Applicazione dei bolli. L’impostante di un oggetto di posta-lettere dovrà attaccare sul suo indirizzo, alla metà del margine superiore, in modo sicuro e bagnando la materia tenace che si trova sulla parte rovescia del bollo, uno o tanti bolli quanti occorrono per ragguagliare col loro valore la tassa di affrancazione competente secondo la distanza ed il peso. La tassa di raccomandazione sarà da pagarsi dall’impostante col bollo di 30 centesimi da attaccarsi alla parte del suggello della lettera», cioè al retro. Istruzioni pignole, ma lodevoli da parte della pubblica amministrazione, e per noi istruttive proprio per l’indicazione su dove applicare il bollo (o bollino, come si legge in altri testi ufficiali). E se la regola di apporre al retro il francobollo rappresentante la tassa di raccomandazione continuò per anni, quella di attaccare il francobollo «alla metà del margine superiore» fu subito disattesa, come dimostra la maggior parte delle lettere del 1850.
La lettera personalizzata
I mittenti infatti hanno sempre considerato non solo il messaggio interno ma anche l’esterno della corrispondenza un mezzo per comunicare, il proprio rango e la propria personalità. Fra Seicento e Settecento erano gli svolazzi nell’indirizzo, gli stemmi nobiliari impressi sulla carta o nei sigilli in ceralacca, talvolta una piegatura molto particolare della lettera; ora invece erano soprattutto il modo in cui veniva vergato l’indirizzo, i termini usati per qualificare il destinatario, l’impiego di carte e buste particolari, talvolta arricchite di decorazioni e diciture a stampa, timbrini col proprio nome, etichette adesive con illustazioni e motti all’epoca note come obbiadini. E l’arrivo dei francobolli offrì l’occasione per un’ulteriore dimostrazione, spesso sottile e raffinata, del proprio estro compositivo. Un esempio molto particolare è dato dalle affrancature tricolori del periodo risorgimentale, quando l’abbinamento di un francobollo rosso e uno verde (o in mancanza anche azzurro), magari intervallati da uno in cui predominasse il bianco (ma poteva bastare un po’ di spazio vuoto), suggeriva l’idea della bandiera di una nuova Italia unita. E a far tremare i governanti del Regno delle Due Sicilie che nei loro francobolli o utilizzarono un solo colore (per i domini di qua del Faro) o evitarono proprio il rosso e il verde . Interventi “artistici” venivano eseguiti anche sui francobolli stessi, almeno quando era possibile, quando la vignetta era ottagonale, ovale o tonda, come negli alti valori britannici a rilievo del 1847-1854 o per alcuni francobolli dello Stato pontificio. Tagliando il “superfluo” (i quattro angoli), si ottenevano esemplari insoliti, vistosamente originali, specie se erano impressi su carta colorata: francobolli che i collezionisti hanno normalmente cestinato come difettosi, e che invece – se ancora su lettera – testimoniano abitudini, interessi e gusti di un’epoca.
L’affrancatura “creativa”
Ma l’impiego postale più estroso e diffuso si ebbe con la disposizione dei francobolli, ad esempio uno su ciascun angolo del frontespizio (e magari un quinto al centro) o persino in modo da comporre una cornice all’indirizzo, come nel caso di questa lettera indirizzata a un corazziere francese, tappezzata di francobolli da 2 centesimi . Altri invece si divertivano a usare i piccoli valori – quelli che più si prestavano al gioco – per formare particolari disegni (replicando, per esempio, la croce sabauda). Ma forse il massimo di creatività filatelico-postale lo raggiunsero certi burloni – compresi alcuni editori che approntavano apposite buste illustrate – in cui il francobollo diventava parte integrante di un disegno scherzoso o allusivo, anticipando di quasi un secolo il fenomeno della mail art. Questa abitudine era diffusa soprattutto in Gran Bretagna da metà dell’Ottocento agli anni Venti, ma se ne trovano esempi anche in Francia e altri paesi, qualcuno persino in Italia. Ecco allora che il francobollo diventa il quadro sul cavalletto del pittore, una bandiera, le insegne appese alla tromba dell’araldo, lo scudo del guerriero, un manifesto, un cappello, l’oggetto in equilibrio sul naso di una foca o sparato da un cannone, e altro ancora: unico limite la fantasia del mittente, talvolta in gara con altri appassionati di questo gioco di società. Di una società in cui la posta era un fondamentale elemento di comunicazione e di civile convivenza.