Lo stock del ministero e il precedente del 1967
La presenza di forti scorte di francobolli emessi da tempo nei magazzini di Poste Italiane non è una novità e l’annuncio di vendite all’asta non è una novità del 2019. Una grande quantità di francobolli fuori corso era di proprietà del ministero sino agli anni Sessanta del Novecento. Una vicenda molto simile a quella contemporanea, che si spera veda la medesima fine.
Con l’unità d’Italia la nuova amministrazione postale ereditò uomini, strutture e attrezzature delle precedenti poste preunitarie. E i loro francobolli. Via via poi che un’emissione andava fuori corso, le scorte ancora esistenti venivano accantonate e ben presto le poste italiane si trovarono in possesso di un buon numero di francobolli – degli antichi stati, d’Italia e delle colonie – che non poteva più utilizzare per affrancare la corrispondenza ma che erano d’interesse per i collezionisti, già allora numerosi. Dalla fine dell’Ottocento, quindi, il ministero pubblicava periodicamente un listino di «carte-valori vendibili per collezione» con prezzi legati alla realtà commerciale del momento. Il ministero operava come un commerciante filatelico, offrendo il materiale in proprio possesso. Questa prassi continuò sino al secondo dopoguerra: l’ultimo Catalogo delle carte-valori postali vendibili per collezione venne edito dal ministero nel 1948. Poi, nel nuovo clima democratico, ci si rese conto dell’improprietà della prassi e nel 1952 chiuse l’ufficio filatelico presso il ministero, la cui gestione era peraltro in perdita. Le scorte dei francobolli però rimanevano, e nel 1954 avvenne un fatto inaspettato. Il ministero, resosi conto della presenza di queste giacenze – grandi quantità di francobolli anche di un certo valore filatelico – decise di venderli all’asta calcolandone i presunti introiti, in modo del tutto irrealistico, al pieno prezzo di catalogo. Quantificò quindi il possibile ricavo in tre miliardi di lire dell’epoca, pari a circa 47 milioni di euro di oggi, che voleva destinare alla costruzione di case per i postelegrafonici. Il fatto naturalmente sconvolse gli operatori dell’epoca, bloccando in particolare il commercio dei francobolli che si presumeva fossero presenti nello stock ministeriale: l’arrivo sul mercato di grandi quantità di quei valori ne avrebbe infatti sicuramente fatto crollare le quotazioni. Da tutto il mondo filatelico si levarono voci per chiedere la distruzione dello stock, ma il ministero non le raccolse. Nel frattempo, in quegli anni si assisteva a una vertiginosa crescita del mercato filatelico, che fece parlare di boom. La spada di Damocle dello stock ministeriale era però sempre incombente e venne ripresa con decisione dal ministro Lorenzo Spallino, insediatosi il 26 luglio 1960. Spallino fu deciso nell’andare avanti, nonostante le sollecitazioni degli operatori. Giulio Bolaffi si era fatto capofila del movimento di protesta. Il ministro organizzò la prima asta per la vendita di un lotto del materiale il 12 dicembre 1961. Nel dicembre 1961 Il collezionista pubblicò un editoriale di fuoco, parlando di «sincero sdegno per l’operato del ministro Spallino», di «abissale incompetenza filatelica» e «paurosa ignoranza delle più elementari leggi economiche» del ministero. La campagna lanciata per non partecipare all’asta ebbe successo e l’asta andò deserta, con appena un’offerta, peraltro al di sotto del minimo stabilito. Il collezionista parlò di «teatrino» e del fatto che non fosse «ancora perduta la speranza che il buonsenso possa infine prevalere e che di tutto lo stock rimanga solo un mucchio di cenere». Un grossista statunitense offrì al ministero 1,05 milioni di dollari, equivalenti a 650 milioni di lire di allora (quasi otto milioni di euro odierni), ma l’offerta non venne accettata.
Imperterrito il ministero continuò con altre tornate d’asta il 13 febbraio e il 19 aprile 1962. Durissime le dichiarazioni della stampa filatelica internazionale. Giulio Bolaffi scrisse: «parole di tal genere avrebbero dato ragione di meditazione a qualsiasi persona anche di mediocre buon senso. Ma l’on. Spallino, del quale è ormai arcinota la pervicacia, ha continuato imperturbabile sulla sua strada disastrosa, forse illudendosi di ottenere fama imperitura dando qualche casa ai postelegrafonici». Nel frattempo il governo Fanfani III andò in crisi; nel successivo Fanfani IV, Spallino venne riconfermato ministro. L’esito delle aste di febbraio e aprile fu simile alla precedente: un’asta andò deserta, nell’altra si vendette un solo lotto: cinquemila esemplari della Repubblica romana a 4,05 milioni di lire, contro una quotazione Bolaffi del lotto di 45 milioni.
Giulio Bolaffi fu molto deciso: «L’on. Spallino continua dunque a marciare imperterrito su una strada disastrosa … ci si chiede come sia possibile che un ministro assolutamente incompetente di filatelia tenti di distruggere con acrimonia e cieca cocciutaggine quanto è stato fatto di buono dalle stesse autorità postali in unità d’intenti con i dirigenti il commercio filatelico, dal 1934 sino al ministero Spataro». Comunque le aste andavano deserte, le offerte erano risibili: il pericolo era ormai superato. Anzi, ormai resa pubblica la consistenza dello stock, i francobolli rari non presenti videro un balzo nelle quotazioni. Il ministro non voleva ancora cedere, ma non organizzò più aste (sarebbe morto di lì a poco, il 27 maggio 1962, in un incidente autostradale). Nel maggio 1966 iniziò in Italia lo sboom filatelico, la fine della bolla speculativa che aveva interessato i francobolli moderni dell’area italiana e il mercato nazionale era turbato e in crisi. Il 16 settembre 1966, ministro Giovanni Spagnolli, nel governo Moro III, venne approvata una legge che autorizzava la distruzione dello stock ministeriale; l’operazione venne finalmente compiuta tra il 20 e il 24 febbraio 1967, eliminando una possibile forma di turbativa e favorendo quindi sia il commercio filatelico sia i collezionisti. C’è da augurarsi che anche la vicenda odierna, che offre diversi parallelismi, abbia il medesimo esito.