Ermanno Olmi
di Domitilla D’Angelo
Poeta della macchina da presa, Ermanno Olmi (Bergamo 1931) ha raccontato le vite degli ultimi in un centinaio fra film e documentari, come regista, sceneggiatore, montatore, scenografo, direttore della fotografia, produttore, intendendo il cinema come una possibilità per capire il senso della vita e il cuore degli uomini. Corteggiato da Hollywood dopo il grande successo nel 1978 dell’Albero degli zoccoli, insignito dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali (David di Donatello, Leone d’oro, Palma d’oro, Nastro d’argento), nel 2007 aveva annunciato la decisione di dirigere solo documentari. E invece…
Il 4 novembre scorso (la data non è stata casuale) è stato presentato il suo nuovo film Torneranno i prati, uno spaccato della Prima guerra mondiale vissuto nelle trincee dell’altopiano di Asiago la notte della vigilia di Caporetto (fra i protagonisti Claudio Santamaria). Perché ha scelto di tornare dietro la cinepresa, d’inverno, per sette settimane di grandi nevicate, nei luoghi in cui il conflitto fu combattuto da italiani e austroungarici?
L’esigenza del copione è stata premiata dalla nostra perseveranza: l’inverno del 1918, che noi raccontiamo nel film, è stato un inverno di grandi nevicate, e madre natura ci ha favoriti durante le riprese.
Per chi quella guerra l’ha combattuta e per le famiglie rimaste a casa la posta era un legame molto importante. E nel film le lettere compaiono.
Certo, e vengono contestualizzate, non sono buttate a caso, ma sono scelte per essere funzionali al risultato dal punto di vista drammaturgico.
Il film si ispira ai racconti del vecchio pastore Toni Lunardi. Tradizione orale e comunicazione scritta sono due mondi inconciliabili?
Nel testimoniare insieme realtà reale e realtà poetica l’artista rende compartecipe il lettore. La buona scrittura per me è quando la pagina non mortifica, anzi valorizza, la dizione orale. Cosa posso fare come esempio? In Omero, che la tradizione tramanda fosse cieco e quindi non poteva leggere né scrivere, c’è identificazione della realtà della vita con la mediazione del poeta che scrive o, in questo caso, canta. Omero conosceva a memoria migliaia di versi. Ancora oggi fra gli abitanti di Volterra è forte la tradizione orale; si ritrovano a gareggiare non per una competizione convenzionale, ma per il piacere di essere comunicatori poetici senza avere la pagina scritta. La rappresentazione della realtà attraverso il canto poetico è il massimo delle possibilità che ha la parola.
L’anno scorso, proprio ad Asiago, in occasione della tavola rotonda Perché ancora il francobollo?, lei ha definito il francobollo «un modo poetico per far sentire la nostra voce e non farci sentire soli nel mondo solitario di oggi». La pensa ancora così?
Il francobollo ha due valenze: quella collezionistica e poi un’altra, che è quella che mi fa tenerezza: non è il francobollo in sé che mi intenerisce, ma tutto il racconto che la busta fa, dal francobollo, all’indirizzo, alla grafia… Sono due posizioni diverse, quella del collezionista e quella di chi, guardando una busta, si intenerisce e fantastica: “Chi sarà il destinatario? Cosa si saranno scritti il mittente e il destinatario? ”. Per me tutto questo è una fonte di grande ispirazione.
Cosa pensa dei francobolli italiani emessi sul cinema italiano (Fellini, Rossellini, Visconti…)? Secondo lei, hanno catturato lo spirito e la poetica dei suoi colleghi?
Il francobollo celebrativo finisce per essere una comunicazione di grande immediatezza. Nel 2006 per San Marino ho disegnato il francobollo per Visconti. Come soggetto ho scelto il cilindro, che mi rinviava al principe di Salina e al Gattopardo.
L’anno scorso ha pubblicato L’apocalisse è un lieto fine. Storia della mia vita e del nostro futuro (Rizzoli), la sua biografia ma anche la biografia dell’Italia degli ultimi ottanta anni .Lei ha definito questo libro «una lettera che scrivo ai miei amici». Scrive ancora lettere?
Io scrivo solo lettere. È anche il mio limite costituzionale, in quanto appena vedo qualcosa di tecnologico, scappo, perché sono incapace di gestire di questo tipo di comunicazione.
Quale è un buon motivo che indicherebbe ai giovani per scrivere una lettera e affrancarla con un francobollo?
Scrivere una lettera toglierebbe quella rigidità scostante del messaggino. Chi riceve un messaggio dentro una busta con un francobollo riconosce subito se lo scrivente è una persona con cui ha scambio di sentimenti o se si tratta soltanto una semplice informazione. La scrittura è un dato distintivo che il computer non ha, perché i caratteri sono sempre quelli, stereotipati. La mano che scrive traduce in scrittura un pensiero, un sentimento, e il segno umano è unico e inconfondibile. Il computer e il messaggino invece standardizzano.
Oltre 20 lungometraggi come regista e 50 documentari realizzati: nella sua vasta produzione cinematografica è capitato che una lettera o un francobollo fossero protagonisti?
Sì, nel Mestiere delle armi (del 2001), quando nella sequenza iniziale Giovanni de’ Medici detta un dispaccio urgente per il duca di Urbino Francesco Maria della Rovere, e nella sequenza successiva, quando con una lettera il duca di Ferrara Alfonso d’Este nega a Giovanni dalle Bande Nere la disponibilità di artiglieria.